IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Esaminati gli atti relativi al procedimento sopra emarginato nei confronti di Giacalone Ignazio, nato il 13 giugno 1937 a Mazara del Vallo, ivi residente, via G. Hopps n. 31, difeso di fiducia dagli avv.ti Antonino Mormino del Foro di Palermo e Paolo Paladino del Foro di Marsala, imputato del delitto p. e p. dagli artt. 81 cpv. C.P., 30 e 31 legge n. 646/1982, perche' essendo stato sottoposto per la durata di anni quattro - con decreto del tribunale di Trapani n. 37/1995 R.M.P in data 3 giugno 1997, confermato nei successivi gradi del relativo procedimento, divenuto definitivo il 16 marzo 1999 ed a lui regolarmente notificato - alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. ex legge n. 575/1965 e succ. modif., ometteva, con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso - di comunicare al Nucleo di polizia tributaria della G. di F. di Trapani le seguenti alienazioni immobiliari: 1) la cessione (da lui effettuata, unitamente a Rallo Vita, Rallo Vincenza, Rallo Grazia e Giacolone Antonino - quest'ultimo mediante procura generale precedentemente conferita al figlio Giacalone Nicolo' - con atto rogato dalla dott.ssa Anna Giubilato, notaio in Mazara del Vallo, in data 26 marzo 1998 per il dichiarato prezzo complessivo di lire 15.000.000, di cui spettanti ad esso prevenuto lire 5000.000) in favore di Tranchida Pasquale di 3/5 indivisi di una vecchia casa sita in Mazara del Vallo, via Derna nn. 8 e 10, composta, nell'intero, al piano terra da 5 vani ed al primo piano da 3 vani ed acessori, censita al N.C.E.U. di Mazara del Vallo alla partita 2232, foglio di mappa 193/A, particelle 160/1 e 160/2; 2) la donazione (da lui effettuata con atto rogato dalla dott.ssa Anna Giubilato, notaio in Mazara del Vallo, in data 28 maggio 1998 per un valore dichiarato di lire 30.000.000) in favore della figlia Giacalone Rossella di uno spezzone di terreno esteso complessivamente are 5 e centiare 50, sito in Mazara del Vallo, contrada "Banna Sicomo", annotato nel N.C.T. di Mazara del Vallo alla partita 75382, foglio di mappa 171 particella 2425; 3) la cessione (da lui effettuata, unitamente a Giacalone Antonino - quest'ultimo mediante procura generale, precedentemente conferita al figlio Giacalone Nicolo' -, con atto rogato dalla dott.ssa Anna Giubilato, notaio in Mazara del Vallo, in data 19 giugno 1998 per il dichiarato prezzo complessivo di lire 62.500.000, di cui spettanti ad esso prevenuto lire 31.250.000) in favore della "IMPREMAR" S.r.l, con sede in Mazara del Vallo, di 2/3 indivisi di uno spezzone di terreno esteso complessivamente nell'intero, are 7 e centiare 50, sito in Mazara del Vallo, contrada "Banna Tonnarella", annotato nel N.C.T. di Mazara del Vallo alla partita 63334, foglio di mappa 188, particella 427; Comunicazioni cui era tenuto, per le alienazioni di cui sub 2) e 3), per il periodo di 10 anni dalla data di applicazione della misura di prevenzione ed entro 30 giorni dalle rispettive stipulazioni di tali negozi giuridici, trattandosi di variazioni nella composizione del patrimonio di elementi ciascun di valore non inferiore a lire 20.000.000; e, per la cessione di cui al precedente punto 1), entro il 31 gennaio 1999, trattandosi di variazione patrimoniale intervenuta nell'anno precedente e concernente anch'essa (dovendo essere presa in considerazione unitamente a tutte le altre verificatesi nello stesso periodo) elemento di valore non inferiore a lire 20.000.000. In Trapani, fino al 31 gennaio 1999. Con la recidiva infraquinquennale. Deduce La illegittimita' costituzionale dell'art. 30 legge 13 settembre 1982, n. 646, per violazione dell'art. 3 Cost., poiche' prevede: al primo comma, che "Le persone condannate con sentenza definitiva per il reato di cui all'art. 416-bis del codice penale o gia' sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall'art. 1 di tale legge, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nella entita' e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ai venti milioni di lire. Entro il 31 gennaio di ciascun anno sono altresi' tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell'anno precedente, quando concernono elementi di valore non inferiore ai venti milioni di lire"; al secondo comma, che "Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna."; al terzo comma, che "Gli obblghi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione e' revocata a seguito del ricorso in appello o in cassazione."; In tal modo rendendo dovute, in relazione al primo comma, l'interpretazione secondo la quale l'obbligo di comunicazione riguarda i soggetti condannati con sentenza definitiva per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. e quelli, gia' sottoposti, ma con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e in relazione ai commi secondo e terzo l'interpretazione secondo la quale l'obbligo di comunicazione incombe sui soggetti sottoposti alla misura della sorveglianza speciale gia' dalla data del decreto o nel momento immediatamente successivo della sua esecuzione, senza necessita' quindi di attendere che il medesimo diventi definitivo. Cosi' infatti si legge nel secondo comma, mentre la previsione, al terzo comma, della cessazione degli obblighidi comunicazione "... quando la misura di prevenzione e' revocata a seguito del ricorso in appello o in cassazione ..." fa logicamente desumere che i predetti obblighi vanno osservati sin dal momento in cui il decreto applicativo della misura di prevenzione e' messo in esecuzione nei confronti del sottoposto. Nel caso di specie, Giacalone Ignazio ha omesso di comunicare le operazioni di alienazione dei beni immobili al Nucleo di polizia tributaria di Trapani effettuate in data 26 marzo 1998, in data 28 maggio 1998 e in data 19 giugno 1998, prima ancora che il decreto fosse definitivo, risultando divenuto definitivo il decreto del tribunale di Trapani n. 37/1995 il 16 marzo 1999. Cio' premesso, va innanzi tutto rilevata l'intrinseca contraddittorieta' della norma unitariamente considerata. Entrambe le due interpretazioni offerte derivano da una lettura piana e coerente per cui non puo' ragionevolmente dubitarsi ne' dell'una, ne' dell'altra, e pero', nel contempo, esse sono inconciliabili quando l'una e' confrontata con l'altra, sancendo il primo comma dell'art. 30 legge citata la nascita degli obblighi di comunicazione solo allorquando il decreto applicativo e' diventato definitivo, mentre il secondo e il terzo comma dell'art. 30 legge n. 646/1982, al contrario, fissano la decorrenza degli obblighi di comunicazione, gia' dalla data in cui al soggetto interessato e' notificata la misura di prevenzione per la immediata esecuzione alle prescrizioni ad essa derivanti, volendo escludere una interpretazione estremamente rigorosa del secondo comma, che fissa la decorrenza degli obblighi, addirittura gia' dalla data del decreto. Questa egualmente possibile duplicita' di interpretazioni, tra di esse contrastanti, nell'ambito della stessa norma determina l'incertezza del diritto con conseguente impossibilita' di assicurare ai soggetti destinatari, parita' di trattamento dinanzi alla legge. Tuttavia l'art. 30, comma 1, legge citata, nella sua prima stesura non prevedeva per i soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale l'inciso "con provvedimento definitivo". Infatti il comma 1 - e soltanto questo, gli altri due sono rimasti immutati - e' stato cosi' sostituito dall'art. 11 della legge 19 marzo 1990 n. 55, contenente disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso. Questa modifica puo' essere spiegata attribuendo al legislatore la volonta' di fissare la nascita degli obblighi di comunicazione al momento della definitivita' del provvedimento, sia che si tratti della sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., sia che si tratti del decreto di applicazione della misura di prevenzione per assicurare parita' di trattamento tra le due categorie di soggetti. A ben vedere l'originaria previsione dell'irrevocabilita' del provvedimento per la vigenza dell'obbligo di comunicazione soltanto per coloro che erano stati condannati per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. appare ingiustamente discriminante per l'altra categoria di soggetti, ove si consideri che per questi ultimi l'obbligo e' immediatamente operativo fin dal momento della sottoposizione alle prescrizioni statuite con il decreto applicativo della misura di prevenzione, sebbene i loro rapporti con contesti criminosi organizzati di tipo mafioso, talvolta, possono essere stati accertati soltanto a livello indiziario, senza che dunque abbiano assunto lo spessore che invece assume una pronuncia di condanna per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. Sicche' ai soggetti condannati per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. e peraltro con pronuncia definitiva sarebbe riservato in conclusione un trattamento meno gravoso, nonostante la loro responsabilita' abbia connotati di maggiore offensivita', secondo il comune sentire della collettivita', con sicuri effetti di sperequazione a tutto svantaggio dei soggetti sottoposti alla sola misura di prevenzione della sorveglianza speciale siccome trattati in pejus, nonostante la loro posizione assuma minor disvalore sociale rispetto a quella dei soggetti condannati con sentenza definitiva per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. Puo' capitare, al fine di far risaltare i possibili effetti abnormi derivanti dall'applicazione del comma 3 della legge n. 682/1946, che il sottoposto a misura di prevenzione, ma non con provvedimento definitivo, violi gli obblighi di comunicazione e che successivamente il decreto che applica la misura di prevenzione venga revocato a seguito del ricorso in appello o in cassazione. In tal caso si verificherebbe, supponendo l'immediata vigenza degli oneri di informazione, la consumazione del reato con le gravose sanzioni penali che ne derivano, sebbene a seguito di revoca del decreto che applica la misura di prevenzione, verrebbe meno lo stesso presupposto in forza del quale sono imposti gli obblighi di comunicazione e quindi uno degli elementi costitutivi da cui dipende l'esistenza del reato. Dovrebbe dunque darsi luogo all'applicazione di sanzioni assai pesanti per un reato che successivamente avrebbe perduto uno dei suoi elementi costitutivi. E' indubbio, quindi, che l'attuale formulazione dell'art. 30 legge n. 646/1982 genera incertezza del diritto e disparita' di trattamento, qualora si ritenga che vi sia immediata decorrenza degli obblighi di comunicazione per i soggetti sottoposti a misura di prevenzione. La questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa di Giacalone Ignazio, appare pertanto preclusiva del giudizio e non manifestamente infondata, poiche' l'inosservanza degli obblighi di comunicazione contestati al Giacalone sarebbe avvenuta quando ancora il decreto di applicazione della misura di prevenzione non era ancora diventato definitivo. Deduce La illegittimita' costituzionale dell'art. 31 legge 13 settembre 1982, n. 646, per violazione dell'art. 27 Cost., nella parte in cui prevede per colui che essendovi tenuto, omette di comunicare entro i termini stabiliti dalla legge le variazioni patrimoniali indicate nell'art. 30 legge citata, ".... la reclusione da due a sei anni ...." e "... la multa da lire 20 milioni a lire 40 milioni ....." oltre "la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonche' del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati". Va premesso che la previsione degli obblighi di comunicazione di cui all'art. 30 legge citata mira in astratto ad attuare una difesa avanzata contro la criminalita' mafiosa, poiche' tali oneri di informazione dovrebbero garantire il controllo costante e attuale sulla consistenza e sulla variazione dei patrimoni dei soggetti mafiosi per almeno dieci anni. Tuttavia tali obblighi sono meramente formali dal momento che dalla loro inosservanza non derivano nella sostanza effetti dannosi, potendo risultare compromesso soltanto lo stato di conoscenza dei patrimoni dei mafiosi. In realta' non e' cosi' poiche' i dati su cui grava l'onere di informazione sono comunque conoscibili aliunde, atteso che gli acquisti e le alienazioni di beni immobili avvengono con atto notarile e sono soggetti a forme di pubblicita' legale. Inoltre si e' verificato nel caso di specie, come in altri casi in trattazione, che il sottoposto ha eccepito la non conoscenza della norma. Appare vero, anzi non puo' dubitarsi del contrario, che il Giacalone non ha avuto conoscenza del precetto, trattandosi di un soggetto che non svolge professionalmente una attivita' legale, ed egli comunque non avrebbe avuto motivo di non osservarla qualora ne fosse stato realmente a conoscenza, dal momento che dall'applicazione di tale norma al Giacalone non sarebbe derivata alcuna conseguenza pregiudizievole per il suo patrimonio. Anzi il Giacalone avrebbe avuto interesse ad ottemperare solo per sottrarsi alle gravi sanzioni comminate per la violazione del precetto penale. Inoltre questo giudice rimettente e' portato a fare un'altra riflessione. L'adempimento degli oneri di formazione in qualche modo contribuisce a dare un certo effetto di apparente liceita' alle operazioni che determinano una variazione dei patrimoni, nel senso che il soggetto obbligato, se effettivamente portato a conoscenza dell'esistenza di tali oneri di informazione, ha tutto l'interesse ad eseguirli, primariamente perche' non gli comporta alcun costo, e poi per far credere di non avere nulla da nascondere, tanto da comunicarlo. Muovendo da tale considerazione puo' realmente dubitarsi che la norma assicuri i risultati di conoscenza voluti con riferimento alle variazioni che comportano aumenti nella consistenza dei patrimoni, essendo scontato che in concreto i soggetti condannati per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. e i soggetti sottoposti a misura di prevenzione qualificata procedano a tali operazioni, mai direttamente, ma avvalendosi di terze persone, quando mirano a nascondere l'espansione del proprio patrimonio grazie all'utilizzo di risorse di provenienza illecita. La norma di cui all'art. 30 legge n. 646/1982 dunque non garantisce affatto la conoscenza di quel che il legislatore mirava a far conoscere e fa conoscere in definitiva quel che il soggetto obbligato vuol rendere noto sulle variazioni del proprio patrimonio. La norma di conseguenza non consente per nulla di acquisire le informazioni sulle variazioni dei patrimoni che derivano dall'impiego di risorse illecite o comunque occulte, ma anzi puo' prestarsi a essere abilmente impiegata da parte dei soggetti destinatari del precetto per far conoscere soltanto quelle variazioni patrimoniali prive di interesse. Trattandosi dunque di una norma che sanziona la violazione di obblighi meramente formali, che non assicura la conoscenza delle variazioni patrimoniali che possono essere oggetto di attenzione per contrastare la criminalita' mafiosa e che di fatto si applica, in caso di violazione, nei confronti di soggetti che in tutta buona fede ne ignoravano l'esistenza, la pena minima edittale e la confisca appaiono assolutamente sproporzionate per eccesso. L'elevato livello del minimo edittale, comportando l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di disvalore sociale dei fatti, nella realta' privi di offensivita', contrasta con l'art. 27 comma 3 Cost., essendo compromessa la finalita' rieducativa della pena. L'intervento della Corte costituzionale di eliminazione del minimo edittale non avrebbe interferenza con la sfera di discrezionalita' legislativa, rinvenendosi nello stesso sistema, in virtu' della generale previsione dell'art. 23 comma 1 c.p. (limite generale di quindici giorni di reclusione), l'individuazione del trattamento sanzionatorio minimo. Inoltre la Corte, se non puo' esprimere il giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto - reato, essendo tale giudizio di spettanza del legislatore, puo' verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza (cfr. in tal senso Corte costituzionale sentenza n. 409 del 1989). Infatti, piu' in generale, "il principio di proporzionalita' ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 409 del 1989). Osserva inoltre che la Corte ha maturato la convinzione che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue ....". Tale finalita' rieducativa implica pertanto un costante principio di proporzione "tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993). La questione di legittimita' costituzionale sollevata d'ufficio appare pertanto preclusiva del giudizio in corso e non manifestamente infondata. Deduce La illegittimita' costituzionale dell'art. 31 legge 13 settembre 1982, n. 646, per violazione degli artt. 3, 27, 35,41 e 42 Cost., nella parte in cui prevede per colui che essendovi tenuto, omette di comunicare entro i termini stabiliti dalla legge le variazioni patrimoniali indicate nell'art. 30 legge citata, "la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonche' del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati". Si ravvisa un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale della norma, laddove impone in caso di condanna, l'adozione della misura della confisca dei beni a qualunque titolo acquistati o del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati. Infatti, nel vigente sistema la confisca e' una misura di sicurezza patrimoniale fondata sulla pericolosita' derivante dalla disponibilita' di alcune cose che servirono o furono destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto; tale istituto, pertanto, secondo l'unanime giurisprudenza di legittimita' non puo' avere carattere punitivo ma, in quanto tende a prevenire la commissione di ulteriori reati, ha carattere cautelare. Nel caso in esame, invece, la confisca si risolve in una mera sanzione accessoria, avente precipuo carattere punitivo in aggiunta alla pena detentiva, in quanto misura del tutto slegata dall'accertamento della pericolosita' della cosa. E' facile notare come il bene venduto o il corrispettivo del bene alienato si pongano in un rapporto di mera "occasionalita'" con il delitto. Nella confisca facoltativa (di tale istituto si tratta, in quanto essa e' prevista obbligatoriamente solo in caso di condanna), occorre un rapporto di asservimento tra la cosa ed il reato nel senso che la prima deve essere ricollegata al secondo da uno stretto nesso strumentale che riveli effettivamente la possibilita' futura del ripetersi di un'attivita' punibile, in modo dunque, che la prima risulti necessaria per il secondo. Cio' perche' il presupposto della confisca va ravvisato nella pericolosita' della cosa che postula l'ulteriore requisito dell'uso necessario della stessa per commettere il reato. Nel caso in questione, la variazione patrimoniale e' solo l'occasione per la nascita del precetto penale della comunicazione ma e' in se' un elemento neutro. Diversamente il legislatore ha disposto quando ha previsto la misura della confisca nell'art. 12-sexies decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306 convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356. Tale norma prevede, infatti, che nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. per alcuni delitti, tra cui quello di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p., "e' sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilita' di cui il condannato non puo' giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilita' a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attivita' economica". Allo stesso modo, nel corso del procedimento di prevenzione, il prevenuto ha la possibilita' di evitare la confisca, ai sensi dell'art. 2-ter (introdotto dalla stessa legge n. 646/1982 ) dimostrando la legittima provenienza dei beni sequestrati. Si viene a creare, pertanto, una disparita' di trattamento di situazioni analoghe: il condannato ex art. 416-bis, al momento della condanna, puo' sottrarsi alla misura della confisca dimostrando la legittima provenienza o la proporzione con il reddito percepito o l'attivita' economica svolta. Lo stesso puo' fare il soggetto nei cui confronti e' proposta misura di prevenzione patrimoniale ai sensi della lgge n. 575/65 (art. 2-ter, commi 2 e 3). Il soggetto sottoposto a misura di prevenzione antimafia divenuta definitiva o il soggetto condannato con sentenza definitiva per art. 416-bis c.p., invece, una volta condannati per la violazione di un mero obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, si vedrebbero confiscati i beni o le utilita' non denunziate, senza possibilita' di dimostrare la legittima provenienza. Occorre, infatti, osservare come essendo l'obbligo di comunicazione previsto con riguardo a "tutte le variazioni nella entita' e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ai venti milioni" ed essendo la confisca prevista per gli acquisti e le alienazioni "a qualunque titolo", debbono intendersi confiscabili anche i beni pervenuti per successione ereditaria o per donazione. Allo stesso modo dovrebbero essere sottoposti a confisca anche quei beni per l'acquisto dei quali l'imputato abbia ipoteticamente acceso un mutuo con un istituto di credito, pagando le rate con i proventi del proprio lavoro. Anche sotto tale aspetto, la misura de quo appare sproporzionata rispetto alla pur certamente condivisibile finalita' legislativa di apprestare un sistema di controllo decennale del patrimonio per seguire lo sviluppo dell'attivita' economica svolta dal mafioso o dall'indiziato mafioso. Tale sproporzione e', d'altronde, il portato di quella gia' rilevata mancanza di collegamento tra la confisca prevista dall'art. 31 e pericolosita' del bene, a meno di non volere ritenere di per se' pericoloso ogni bene o utilita' solo perche' in possesso di un soggetto mafioso o indiziato tale, ma allora non si comprenderebbe perche' non sia stata disposta la confisca incondizionata anche nell'ipotesi di cui all'art. 12-sexies. Il disposto normativo in questione appare, dunque, violare il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., principio che, secondo la stessa giurisprudenza di codesta Corte, e' espressione di un generale canone di coerenza dell'ordinamento normativo. La legge in esame, a parere di questo remittente, appare affetta da irragionevolezza, sotto il profilo della "incoerenza", ossia della totale inesistenza di correlazioni tra fine primario della legge e differenziazioni normative, sotto il profilo della "impertinenza", quale mancanza di correlazione logica del meccanismo legislativo rispetto agli obiettivi da perseguire, ma anche sotto il profilo della "inadeguatezza" in quanto lo strumento legislativo della confisca pecca palesemente per eccesso o, comunque, per mancanza di proporzione, rispetto all'obiettivo avuto di mira, in modo tale da generare disparita'. Infine, ritiene questo remittente che la previsione della confisca da parte dell'art. 31 in esame contrasta anche con gli artt. 35, 41, e 42 Cost., che tutelano il lavoro e l'attivita' economica privata e garantiscono la proprieta' provata, laddove viene prevista l'ablazione del bene o dell'utilita' anche qualora siano il frutto del lavoro e del risparmio e dunque quando il modo di acquisto della proprieta' sia connesso ad attivita' consentite e protette dal diritto. Nel caso di specie, la confisca del corrispettivo dei beni alienati, ove in concreto praticabile, apparirebbe ancor piu' iniqua ove si consideri che i predetti beni, in esito al procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione nei confronti del Giacalone, sono stati dissequestrati proprio sul presupposto della loro legittima provenienza. La questione di legittimita' costituzionale sollevata d'ufficio, con riguardo alla confisca, appare pertanto preclusiva del giudizio in corso e non manifestamente infondata. Ravvisasi, quindi, tre questioni di illegittimita' costituzionale che e' necessario risolvere con l'intervento della Corte costituzionale.